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sabato 22 febbraio 2014

Circo Inzir a Los Arroyos

VIDEO  (bellissimo!!!!)
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Sono Passati ormai 5 giorni da quando è arrivato il “gruppo banana” (Cit, Pietro, Andrea, Nico e Enrico), i loro visi da pallidi sono di colpo passati al rosso peperone.
Martedì, qui nel collegio abbiamo fatto il primo spettacolo tutti insieme. E’ stata una serata di festa, prima di noi si sono esibiti nella cancha vari gruppi di studenti: chi cantava, chi ballava, chi eseguiva figure acrobatiche.
Il nostro spettacolo è andato bene anche se un po’ confuso, ci si deve ancora calibrare.
Il giorno dopo (mercoledì) io, Pietro, Saran e Sandro siamo rimasti al collegio per portare avanti i laboratori mentre tutti gli altri sono andati nell’aldea di S. Marco per fare spettacolo.
Al ritorno avevano gli stessi occhi che avevamo io e Sandro quando siamo andati lì la prima volta. (diario 08-02)
Descriverli in una parola?
Pieni.
Sprigionavano quella particolare luce che emana chi in quel momento ha capito qualcosa di importante.
Alla domanda:” Com’è andata?” più di qualcuno ha risposto gonfiando il petto e scuotendo la testa, cercando di dire qualcosa che però è rimasto bloccato gola, perchè è troppo più grande delle parole che si vorrebbero usare per descriverlo.
E’ già giovedì.
Un giorno che aspettavamo con curiosità.
Sveglia all’alba, colazione, finire di preparare velocemente lo zaino: sacco a pelo, zanzariera, ciascuno il minimo dei propri attrezzi da circo, costume da spettacolo, acqua e il sacchetto del cibo contenete 2 banane, 1 mela, 2 biscotti, 2 panini.
Alle 6:25, puntuale come un orologio svizzero, arriva Padre Ottavio, alle 6:40, con soli 10 minuti di ritardo, si parte. Mai visto Circo InZir essere così “quasi puntuale”, inizio a credere ai miracoli.
Dopo mezz’ora di macchina, passando per colline umide e valli ancora coccolate dalla nebbia del mattino, arriviamo a Sokultè, una delle prime aldee che si incontrano a sud di Dolores.
Parcheggiamo il pick-up e Terricola nell’aia della casa di Emilio
Il primo cavallo, quello sellato per il Padre è già lì a ruminare serafico, gli altri tre arriveranno da lì a un quarto d’ora, in trenta minuti saranno già pronti per seguirci con tutti i nostri zaini in groppa.
Nell’attesa ho modo di osservarci un po’, sembriamo, più del solito, scolaretti in gita.
Il nostro aspetto in generale è un mix grottesco tra gadget hi-tec basso costo e abbigliamento totalmente inadeguato.
Un gruppo di bambini ci osserva mantenendo una distanza di sicurezza, se avessero avuto delle noccioline probabilmente ce le avrebbero tirate.
Fortunatamente suona la campanella della scuola e i nanerottoli curiosi corrono via.
Alle 7:30 tutto è pronto, si parte, direzione Los Arroyos, aldea raggiungibile solo a piedi o a cavallo, 4 ore di cammino stimate.
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Nonostante la levataccia l’umore del gruppo è buono, tagliamo attraverso una valle piena di sole, quello fresco e benevolo del mattino, quello che sembra dirti:”dai che ce la farai!”
Alla testa di questa che sembra l’armata Brancaleone c’è Padre Ottavio a cavallo, chiudono i tre cavalli da soma coi loro padroni, con noi è venuto anche Emilio.
Attraversiamo la valle guadando un torrente d’acqua fresca e limpida e subito dopo inizia la salita.
Un’ora di salita durissima su un terreno fatto di argilla e pietre.
L’umore resta buono, le magliette si bagnano di sudore, il fiato si fa corto.
Quasi alla fine della salita finalmente si entra nella foresta, l’aria è umida ma almeno il sole, che nel frattempo ha smesso di essere gentile, smette di arrostirti.
Non è una foresta fittissima ma è comunque uno spettacolo di alberi, piante che per noi sono stranissime e felci alte fino a 6 – 7 metri. Non avevo mai visto felci così alte, sembrano palme in miniatura.
Il gruppo inizia a sfilacciarsi.
La prima pausa è alla fine della salita, ai piedi di una torre di legno alta una ventina di metri, sulla quale, incuranti della fatica decidiamo di salire a turno.
Così la prima pausa ce la giochiamo salendo e scendendo gradini, per nulla riposati ripartiamo.
E’ il turno del fango.
Nella foresta le scarpe s’incollano al suolo, se metti il piede nel punto sbagliato il fango ti arriva fin sotto il ginocchio, ci sono punti in cui è impossibile trovare della terra solida, così ti metti il cuore in pace e avanzi sprofondando.
Dopo una ripida discesa arriviamo in un secondo torrente immerso nel bosco.
Qui facciamo una seconda pausa, giusto il tempo di lavarsi la faccia e la testa.
Emilio dice che l’acqua si può bere, così faccio un piccolo sorso, lo stomaco si dovrà pur abituare piano piano a nuovi batteri.
Quando usciamo dalla foresta si apre davanti a noi uno scenario d’incanto, sommità smussate di colline a perdita d’occhio, nessun segno dell’ingegno umano, se non qualche recinto qua e là.
Il paesaggio sarebbe davvero bello solo che lo puoi guardare di sfuggita, lo sguardo infatti è sempre rivolto in basso nel goffo tentativo di evitare buche, pietre e fango.
Dopo 2 ore e mezzo di cammino l’umore resta buono, le magliette restano sudate e i pantaloni ricoperti di fango.
Emilio ci avvisa che siamo ad una mezz’oretta da Los Arroyos, il gruppo ha tenuto una buona andatura.
In quest’ultimo tratto Emilio si lascia un po’ andare e inizia ad istruirci un po’ sulla flora del posto.
Di tanto in tanto si ferma raccoglie una pianta e spiega a cosa serve.
C’è il Narciso Silvestre che se lo rompi proprio sotto la florescienza ne ricavi il latte utilizzato per combattere dei simpatici vermetti che si infilano sotto la pelle.
C’è la Santa Maria il cui gambo, opportunamente sbucciato diventa una prelibatezza.
Poi c’è una pianta di cui non ricordo il nome, le cui foglie ricordano vagamente il Tarassaco nostrano e che viene usata per curare la malaria.
Io e Nico l’abbiamo assaggiata … è la cosa più amara di questo mondo!
Nico subito intravede la possibilità di ricavarne una bevanda che oltre il corpo curi anche lo spirito … con un po’ di fermentazione in più …
Poi un altro fiore capace di alleviare i fastidi causati da malefici moschini presenti nella zona.
Sulla nostra strada, ormai prossimi all’aldea, incontriamo un terzo torrente e questa volta non resistiamo.
Dopo quasi tre ore di marcia serrata siamo tutti in mutande immersi nell’acqua fresca, intanto Padre Ottavio va avanti, noi lo raggiungeremo a breve.
Nell’ultimo tratto c’è giusto il tempo per un ultimo gradito incontro.
Noi le chiamiamo scimmie ragno, i guatemaltechi invece le danno il nome molto più appropriato di Micoleones (scimmia leone).
Si tratta di una scimmietta con una coda non troppo lunga, un essere marroncino di circa 50cm dagli occhi neri e grandi, con dei movimenti sinuosi simili ai felini.
Il tempo di farle due foto e ripartiamo, lei ci segue per una decina di metri dall’alto degli alberi poi si abissa nella foresta.
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Finalmente arriviamo a destinazione. Los Arroyos è un’aldea di poche case arroccate su una collina. Qui vivono una trentina di famiglie, per raggiungere la prima strada carrabile gli abitanti devono percorrere tre ore di cammino.
Eppure c’è una scuola, c’è la chiesa e, con grande fatica, stanno spianando una zona per farne un campo da calcio… per ora c’è solo una porta e se sbagli mira il pallone lo raccogli a valle.
Quando arriviamo Padre Ottavio è circondato da bambini, seduto all’ombra di un edificio adiacente alla chiesa.
Salutiamo i bambini, salutiamo gli adulti presenti e salutiamo le donne che stanno già cucinando per noi. La cucina è in argilla, ovviamente a legna, e le cuoche battono le mani ritmicamente, Andrea dice che è “in levare”, ma non è un applauso, è così che si fanno le tortillas di mais.
Si può immaginare come in un paesino così sperduto, dove per recuperare l’acqua devi fare 15 minuti di discesa e 20-25 di salita, dove il fabbisogno comunitario è quasi l’unico bisogno, beh si può immaginare che rivoluzione possa essere l’arrivo di 15 bocche da sfamare.
Il pranzo è ricco, galline in brodo, e che brodo, fagioli, riso e delle splendide tortillas appena fatte, da bere acqua e limone.
L’umore resta buono ma siamo devastati dalla fatica e bolliti dal sole. Intorno all’aldea non ci sono quasi più alberi, a causa del vento forte e del terreno argilloso, hanno dovuto abbattere quelle piante che minacciavano tetti e case.
Siamo distrutti, Mattia, Tati e Gabo trovano quattro assi di legno sotto una tettoia un po’ più a valle e si stendono lì.
Enrico tenta l’impossibile: addormentarsi sotto il sole sul tronco di un grande albero abbattuto… e ce la fa…
Nico e Gera, presi dal compulsivismo del giocoliere lanciano in aria clave.
Io mi muovo come un’anima in pena in cerca di un posto all’ombra dove sdraiarmi.
Dopo poco, Enrico, raggiunto il punto di cottura ideale, si alza, prende la fisarmonica che ha stoicamente portato in spalla per tutto il cammino, e si unisce ad Andrea per suonare qualcosa. Io e Cit intanto cerchiamo di sistemare due chitarre un po’ acciaccate, ma nulla da fare: un “La” abbandona definitivamente questo mondo mentre l’altra chitarra non riesce a tenere l’accordatura per più di venti secondi.
Arriva il momento dello spettacolo, questa volta l’orario è abbastanza proibitivo, sono le 4 e mezza e il sole è ancora bello alto, il pubblico è all’ombra, noi sudiamo gli ultimi sali minerali.
La performance è divertente ,seppur ridotta vista l’impossibilità di portare le strutture pesanti per filo teso e trapezio.
Noi ci divertiamo a farlo e quelle 30-40 persone di pubblico a guardarlo.
Appena finito torniamo in quella che sarà la nostra casetta per la notte, un cane si è mangiato la mia merenda e la mia colazione del giorno dopo.
La nostra casetta a Los Arroyos è l’ambulatorio del paese, ossia 4 muri fatti con assi di legno, tetto di lamiera e il pavimento di terra.
Si cena alle 5, questa volta riso, fagioli, patate e un tubero bianco squisito, simile alla patata.
Dopo cena si presto buio, giusto in tempo di gustarci un tramonto di arancio e pace dalla parte più alta della collina su cui poggia l’aldea.
Quando fa buio l’unica luce nel raggio di km e km è quella della chiesetta di legno. L’instancabile Padre Ottavio è dentro che confessa i fedeli, la fila è lunga visto che riesce a raggiungere questa parrocchia solo 3-4 volte l’anno.
A coprire le ammissioni di colpa dei credenti c’è una canzoncina suonata alla buona con la pianola.
Noi intanto, una volta sistemate amache e assi di legno per dormire, usciamo e ci sediamo ricoperti da miliardi di stelle.
Questi posti ti pacificano il cuore dice Andrea ed ha ragione. Queste stelle aggiustano tutto quello che hai di rotto dentro.
Bambini giocano e corrono al buio intorno a noi. Sentiamo che la messa ha avuto inizio, nel giro di 20 minuti, un po’ alla volta ci infiliamo nei sacchi a pelo.
La notte…
ci sarebbero due modi per descrivervi questa notte: uno poetico e l’altro no.
Sceglierò il secondo.
Il vento forte è stato una costante, tutta la casa scalpitava e tremava, le lamiere sembrava che stessero per staccarsi da un momento all’altro.
Qualcuno ha dormito avvolto nel sacco a pelo su assi di legno e qualcun altro in amaca, la mia, a basso costo in nylon, è in assoluto l’amaca più scomoda sulla quale abbia mai dormito.
Verso l’alba il vento si è calmato ed è stata la volta di zanzare e moscerini cattivissimi.
Insomma una notte insonne quasi per tutti.
Prima di dormire abbiamo avuto una lotta con uno scorpione che si aggirava indisturbato sul pavimento.
Per quel che riguarda le zecche invece la classifica vede il sottoscritto al comando a quota 3, seguito da Sandro e Mattia a 2, in coda Sara e Tati con 1 assalto all’attivo.
Il ritorno è stato più piacevole del previsto nessuno è stato colto da nervosismo dovuto alla stanchezza. L’umore è rimasto buono e cuori leggeri.
E’ valsa la pena fare tutto questo per fare uno spettacolo per 30 – 40 persone?
Assolutamente si, lì su mai nessun circo era arrivato prima, in quelle poche persone ci sono sono tutti i perchè di Circo InZir, in quelle risate sincere tutto l’oro del mondo.

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