Per la prima volta nella storia un un capo di stato viene giudicato per i crimini commessi durante il suo mandato da un tribunale nazionale e non da una corte internazionale. Questo è avvenuto proprio in Guatemala: l'11 maggio una corte formata da tre giudici ha condannato l’ex
dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt a ottant’anni di
carcere per genocidio.
dalla rivista POPOLI :
"Non c'è pace senza giustizia". In Guatemala Ríos Montt condannato per genocidio
«In Guatemala è stato compiuto sistematicamente un genocidio
ai danni della popolazione maya Ixil», ha dichiarato la giudice Jazmin
Barrios. Si è concluso così, dopo due mesi, il processo contro due ex
generali, l’ex capo di Stato de facto, Efraín Ríos Montt, e l’ex capo
dell’intelligence militare, Josè Mauricio Rodriguez Sànchez, accusati di
genocidio e di delitti contro l’umanità.
La sentenza, pronunciata
il 10 maggio, dopo una ventina di udienze e un centinaio di
testimonianze, ha riconosciuto colpevole di genocidio e crimini contro
l’umanità l’86enne Efraín Ríos Montt. Per essere stato ritenuto
responsabile del massacro di 1.771 indigeni delle comunità maya Ixiles
l’ex generale è stato condannato a 80 anni di carcere, di cui 50 per il
delitto di genocidio.
Una decisione storica per
il Guatemala, di cui abbiamo parlato con monsignor Alvaro Ramazzini,
vescovo di Huehuetenango, e attivo da anni nella promozione e difesa dei
diritti dei popoli indigeni. «Il processo - spiega Ramazzini - ha fatto
capire quanto la polarizzazione sociale sia forte nel Paese. Nella
società guatemalteca ci sono profonde divisioni: mentre in tribunale
alcuni indigeni maya Ixiles hanno testimoniato raccontando le violenze
subite e chiedendo giustizia per i loro parenti uccisi,
contemporaneamente venivano organizzate manifestazioni a favore di Rios
Montt alle quali partecipavano gruppi di Ixiles».
Il vescovo denuncia
come la violenza mediatica si sia scagliata anche contro la Chiesa
cattolica. «In una pubblicazione intitolata La farsa del genocidio,
che circolava nelle scorse settimane in Guatemala, la Fondazione contro
il Terrorismo sosteneva che il processo contro Rios Montt è una
cospirazione marxista dalla Chiesa cattolica». Notevole anche la
preoccupazione per la criminalizzazione e le persecuzioni dei leader
comunitari: «Risale a solo poche settimane fa il sequestro e
l’assassinio di Daniel Pedro Mateo, leader comunitario della comunità di
Santa Eulalia, nella mia diocesi».
Lo scorso 26 aprile ricorreva
poi il 15° anniversario dell’assassinio di monsignor Juan Gerardi,
vescovo ausiliare di Città del Guatemala, ucciso per il suo instancabile
lavoro di ricerca della verità sugli anni della guerra civile. In
questa occasione la Conferenza episcopale ha pubblicato un messaggio nel
quale ha dato una lettura della situazione del Paese (La paz estè con ustedes).
Riprendendo quel testo, Ramazzini presenta le sfide che ancora
rimangono aperte: «Sono passati 17 anni dalla firma degli accordi di
pace. È vero che questi accordi hanno posto fine al conflitto armato. Ma
constatiamo che nei loro aspetti principali sono rimasti lettera morta,
frustrando così le speranze del popolo guatemalteco. Dobbiamo
riconoscere che le cause strutturali che hanno dato origine al conflitto
armato non sono state superate, si rafforza un modello economico che
concentra la ricchezza nelle mani di pochi. In questi anni abbiamo visto
politiche che non offrono soluzioni alla situazione di povertà,
emigrazione forzata, razzismo ed esclusione. Continuiamo a constatare la
costante mancanza di rispetto della dignità umana, di crescente e
pericolosa polarizzazione sociale, di calunnie e voci ricorrenti che
creano confusione».
Ramazzini sottolinea il senso del prezioso lavoro di
recupero della memoria storica di cui Gerardi è stato l’anima: «La
Chiesa cattolica pensava che fosse importante conoscere le ragioni e le
cause della guerra che per 36 anni ha sconvolto la società
guatemalteca, con migliaia di morti, desaparecidos, sfollati interni e
in Messico. Volevamo capire, per evitare che succedesse ancora una
tragedia simile. Siamo convinti che una guerra causa ferite molto
profonde sia a livello personale che nel tessuto sociale».
E il
vescovo sottolinea anche l’impegno per il futuro: «Gerardi voleva che il
progetto del recupero della memoria storica potesse continuare. Voleva
fare in modo che i colpevoli potessero chiedere perdono alle vittime, e
le vittime potessero perdonare. Molti non hanno inteso il lavoro
capillare di raccolta di testimonianze e di ricerca della verità, e
pensano che la Chiesa abbia voluto fare rivivere sentimenti di vendetta e
di odio. La Chiesa cerca la riconciliazione attraverso la verità».
Pur in una situazione di violenza diffusa,
di mancato compimento degli accordi di pace, che posero fine alla
guerra interna, con le annose problematiche legate alla terra, in
assenza di una riforma agraria, con una politica economica neoliberista
che apre le porte agli investimenti delle multinazionali straniere senza
curarsi della volontà delle popolazioni indigene e del rispetto della
natura, nonostante tutto ciò, mons. Ramazzini vede alcuni segni di
speranza, in particolare nella forte presa di coscienza delle
popolazioni indigene, che si stanno organizzando per la salvaguardia dei
loro diritti, nell’impegno degli operatori pastorali e sociali, che sul
territorio collaborano anche con le attività della Chiesa per
migliorare le condizioni di vita della popolazione, e nella grande
solidarietà e nell’amicizia che sente sia nei suoi confronti sia del suo
Paese.
Mons. Gerardi sosteneva che fino a quando non si conoscerà
la verità le ferite del passato rimarranno aperte. Quasi facendogli eco,
la giudice Barrios durante la lettura della sentenza di condanna a Rios
Montt ha aggiunto: «Perché esista pace in Guatemala deve esistere prima
giustizia».
Con il riconoscimento del genocidio, si può aprire una pagina nuova nella storia del piccolo Paese centroamericano.