FRONTIERE
Obiettivo Guatemala :un Paese dimenticato
Dante Liano
Su un’impalcatura di stampo
coloniale, domina una politica populista e neoliberista. Il divario fra ricchi
e poveri è impressionante.
L’attuale presidente è un pastore
evangelico che spinge sulla “teologia della prosperità” ed è in mano a un’oligarchia.
La consueta ironia guatemalteca ha inventato un aneddoto di
ambientazione britannica. Si dice che, durante la seconda guerra mondiale,
Winston Churchill, mentre fumava uno dei suoi monumentali sigari, avesse
ricevuto la notizia che il Guatemala si era unito agli Alleati nella lotta contro
il nazifascismo. Churchill consultò il mappamondo, ma non riuscì a trovare tale
Paese. «Il Guatemala? Dov’è il Guatemala? Non riesco a trovarlo!», esclamò con
il solito fare irritato. Un aiutante gli si avvicinò, e con un gesto veloce,
spostò un minuscolo mucchietto di cenere caduto dal sigaro dello statista
inglese. «Eccolo il Guatemala!», disse, «era coperto dalla cenere». Non più
grande di una mosca, il piccolo Paese centroamericano era diventato invisibile.
Ogni
tanto il nome del Guatemala compare nei fi lm, come un incidente o una
casualità: un immigrato negli Stati Uniti, un cameriere, un bambino adottato…
le solite comparsate di persone che non hanno diritto al protagonismo. Ogni
tanto, un potente terremoto scuote il Paese, e questo lo fa rimbalzare sulle
pagine dedicate all’attualità internazionale. L’anno scorso, il vulcano Fuego
ha eruttato violentemente, e la storia di quell’eruzione sembra quasi il
ritratto del Paese.
Dovunque
si volga lo sguardo, in Guatemala, appare un vulcano. Lungo la spina dorsale
della Sierra Madre che l’attraversa, ci sono ben 21 vulcani, alcuni famosi per
l’altitudine, altri per la bellezza, altri per la continua attività. Il vulcano
Fuego è sempre attivo, e il suo cratere è perennemente orlato da nuvole di
fumo, discrete e ornamentali. Solo di recente si è svegliato con particolare
forza, ma fi no a qualche anno fa, veniva considerato una sorta di fi era
innocua, un feroce leone addomesticato e tenuto a bada da una catena
invisibile. Finché, la domenica del 3 giugno 2018, verso mezzogiorno, tutta la
forza compressa durante anni esplose in un’eruzione colossale: una colonna di
ceneri, magma e lapilli che in un primo momento si innalzò per circa 10
chilometri di altezza e poi ricadde sul lato sud, come un torrente tossico e
bollente che costò la vita a 300 persone. Si dà il caso che su quel versante
sud, nella parte più alta del vulcano, ci fosse uno degli alberghi di lusso più
rinomati al mondo. Ricchi di tutto il pianeta giungevano al resort, famoso per
avere ampi campi da golf. Più giù, verso la costa, c’erano diversi villaggi di
gente molto povera. Avvertendo l’insolita attività tellurica del vulcano, l’Istituto
di Vulcanologia riportò subito la notizia sul proprio sito internet. La
Protezione civile si mise in contatto con la direttrice dell’albergo. Avvisati
dell’imminenza della catastrofe, i dirigenti della struttura evacuarono in
fretta e furia i loro ricchi ospiti, che, così, salvarono vita e valigie. Nei
minuti successivi, il fiume di ceneri e lapilli, come uno tsunami bollente e
impietoso, distrusse l’albergo e tutto quanto trovò sulla sua strada. Ma se i
ricchi erano stati avvertiti, nessuno si curò dei poveri abitanti dei villaggi,
che morirono bruciati mentre tentavano di scappare. Qualcuno parlò di una nuova
Pompei.
Forse
la chiave di lettura di un Paese come il Guatemala è proprio la condotta
seguita dalle autorità durante quella catastrofe. Una cosa sono i ricchi e un’altra
i poveri. In questo caso, la differenza fra gli uni e gli altri è consistita
nel poter disporre di Internet. Già entrati a pieno nel XXI secolo, mentre nei
Paesi ricchi si parla di automobili senza conducente, intelligenza artificiale,
algoritmi e robotizzazione, in Guatemala dobbiamo fare i conti con chi non ha
alcun tipo di collegamento alla rete, e quindi non esiste. Nel caso dell’eruzione
del vulcano, la differenza non si è posta fra poter o meno vedere Netflix o godere
di Spotify, ma fra la vita e la morte.
Dalle
riforme liberali del XIX secolo, il Paese è nettamente spaccato in due: da un
lato, un gruppo dirigente che egemonizza il potere e possiede tutto, ed è la
minoranza del Paese, e dall’altro, una massa sterminata di popolazione che non
possiede niente, né avrà mai l’opportunità di salire nella scala sociale.
Dentro una cornice liberale (il liberalismo è stata la dottrina dominante in
tutto il XX secolo), due mondi si muovono a velocità diversa: il mondo di chi
ha tutto e quello di chi non ha niente. Naturalmente, con le dovute sfumature.
Da una base di partenza marcata da un liberalismo ottocentesco, siamo arrivati a
un modello neoliberista estremo.
Per
questo motivo, la classe dirigente del Guatemala attuale è composita ma
compatta. La vecchia oligarchia terriera, di stampo coloniale e con blasonati
cognomi spagnoli, si è alleata con una nuova borghesia, composta da
imprenditori finanziari, industriali e professionisti.
Ormai,
non c’è posto al mondo dove non si conosca il rum Zacapa Centenario, emblema
del nuovo Guatemala: l’antico capitale oligarchico al servizio delle nuove
generazioni imprenditoriali globalizzate, dinamiche e internazionali. Ci sono
poi nuove alleanze, frutto della storia recente. I militari, che si sono
arricchiti con le lotte interne, si sono elevati da servi a soci. E, siccome pecunia non olet, i grandi capi del narcotraffico iniettano enormi quantità
di denaro liquido nelle grandi ricchezze tradizionali. Il livello di benessere
di questa classe dirigente è molto simile a quello dei grandi possidenti delle
potenze industrializzate. E in questo stile di vita è stata incorporata anche
una buona fetta della classe media, che, indebitata fi no al collo, si concede una
vita di sfarzi e lussi. Nei centri commerciali della capitale guatemalteca non
manca niente, dalle auto di lusso ai vini francesi più pregiati. Per le strade,
non è raro vedere una Porsche Cayman che gira indisturbata.
All’abisso
che separa la classe dirigente da quella subalterna, che vive nella povertà e
nella miseria più nera, bisogna aggiungere un elemento in più: la divisione
etnica. Il Guatemala è diviso, fi n dall’epoca coloniale, in due grandi gruppi
etnici: i discendenti dei maya e i discendenti degli spagnoli. I maya hanno
subito 300 anni di oppressione e sfruttamento da parte dei ladinos, come vengono chiamati i non indigeni. Il razzismo è moneta
corrente, basta pensare alla politica di sterminio dei maya praticata negli
anni Ottanta, e poi qualificata come “genocidio” dalle Nazioni Unite. Oltre al
razzismo, domina una mentalità patriarcale, che fa del Guatemala uno dei Paesi
con il maggior numero di femminicidi al mondo.
Perché
mai, dunque, uno straniero può interessarsi a un Paese che sembra il tipico
Paese del Terzo Mondo, le cui vicende possono tutto sommato lasciarci
indifferenti? Forse perché il Guatemala è stato, da sempre, un laboratorio
politico molto interessante. Si prenda, ad esempio, il timido tentativo di
instaurare, dal 1944 al 1954, una democrazia. Il solo pensiero dell’esistenza
di istituzioni democratiche quali il parlamento, la magistratura e un esecutivo
indipendente, mosse l’oligarchia terriera, il Dipartimento di Stato americano e
l’allora potente
multinazionale
United Fruit Company a organizzare l’invasione del Paese. Si trattò del primo
colpo di Stato mediatico: i giornali di tutto il mondo si allinearono nel
decretare come “dittatura” un governo eletto dal popolo, e le diverse
organizzazioni internazionali fecero crescere un pensiero dominante che
autorizzò il rovesciamento del governo di Arbenz. Visto che aveva funzionato,
il metodo venne applicato in diverse regioni del mondo, e ebbe il suo culmine
nel rovesciamento del presidente cileno Allende nel 1973. In tutti i casi, al
colpo di Stato seguì un bagno di sangue, ma questo al sistema mediatico
internazionale non interessava più.
In
un’ottica simile, risulta particolarmente degna di nota la situazione politica
attuale. Le ultime elezioni presidenziali, seguendo la tendenza planetaria
verso l’antipolitica, sono state vinte da un comico proveniente dalla tv. Si
chiama Jimmy Morales, non possiede nessuna laurea, e la chiave del suo successo
non è stata solo la grande popolarità guadagnata attraverso lo schermo
televisivo: dietro questa maschera comica, si celano i più sanguinari fra i
militari della vecchia guardia e la classe imprenditoriale, che vede in un
presidente politicamente e culturalmente debole la grande opportunità di
applicare un neoliberismo estremo. Infatti, ciò che fa del Guatemala un
laboratorio di grande interesse è l’applicazione dell’utopia anarcocapitalista.
Se prima lo Stato era molto debole, adesso, con un incompetente alla guida, è quasi
inesistente. Tutto è privatizzato: l’energia elettrica, l’acqua potabile, la
scuola, gli ospedali, la polizia. Intendiamoci: l’impresa municipale dell’acqua
esiste, ma non eroga acqua potabile, che bisogna comprare da una ditta privata;
la scuola pubblica esiste, ma è talmente abbandonata a se stessa che si
preferiscono i collegi privati; la polizia nazionale esiste, ma ogni condominio
che si rispetti ha ingaggiato un’impresa privata di sicurezza, con agenti
meglio armati e meglio addestrati; gli ospedali pubblici esistono, ma all’Ospedale
Generale i ricoverati devono portarsi da casa coperte e cibo, meglio allora
rivolgersi alla sanità privata. In sintesi: regna, sovrana, la legge del
mercato.
Il
risultato di questa anarchia capitalista è stato il prosperare della corruzione
o della minaccia armata. Tutta la classe dirigente è diventata direttamente
corrotta o in qualche modo sfiorata dalla corruzione. Per questo motivo, le
Nazioni Unite hanno dovuto istituire una Superprocura internazionale contro la
corruzione nel Paese. Come risultato, l’ex presidente e l’ex vicepresidente
della Repubblica sono finiti in galera. E quando la Superprocura ha iniziato a
indagare anche sull’attuale presidente, questi ha espulso dal Paese i giudici
internazionali. Siamo davanti a un populismo di destra che invoca la sovranità
nazionale, solidamente sostenuto dalla classe imprenditoriale. E a questo punto
s’inserisce una variabile non indifferente: la religione. Se le teorie
neoliberiste vengono applicate come un articolo di fede, nella politica del
Paese assume anche un’importanza crescente la religione protestante (lo stesso
Jimmy Morales è un pastore evangelico). La presenza delle chiese evangeliche
proviene dall’epoca della guerra civile, ed è stato uno dei tanti sistemi per
combattere l’opposizione armata, che aveva matrici anche cattoliche.
Il
Guatemala è pervaso di chiese evangeliche di stampo nordamericano che all’impostazione
teologica cattolica dell’opzione per i poveri contrappongono la teologia della
prosperità (prosperity gospel), secondo cui più si hanno ricchezze, più si è benedetti
dal Signore.
L’esempio
lampante è il caso del pastore “Cash” Luna, le cui ricchezze multimilionarie
gli hanno permesso di costruire una megachiesa, denominata “Casa de Dios”, una
sorta di stadio con ampio parcheggio, in cui si danno appuntamento migliaia di
fedeli ogni fi ne settimana. “Cash” Luna non ha segreti. Ai suoi fedeli dice:
«Preparate la preghiera e il libretto degli assegni». E i fedeli, dai più
abbienti ai più disagiati, pagano
obbedienti al pastore un decimo dei loro guadagni. In cambio, Luna offre una
fede rassicurante, nella quale l’accumulazione del denaro è benedetta da Dio,
il tutto condito con un’atmosfera circense, con canti, balli e miracoli. Ogni
settimana Luna fa camminare i paralitici e vedere i ciechi, guarisce ogni tipo
di cancro. La gente in delirio applaude alle stampelle che volano mentre il
malato cammina verso l’abbraccio del pastore, senza che nessuno venga sfiorato
dal sospetto che sia tutta una messinscena ben preparata. E come “Cash” Luna,
altri pastori prosperano in mezzo all’anarchia religiosa. Al momento delle
elezioni, tornano molto utili, perché i fedeli votano per il candidato scelto
dalla chiesa evangelica. Grande parte del successo dell’attuale presidente
viene da questo.
Per
finire l’“allegro” quadro: siamo nell’epoca della rivoluzione digitale, che non
ha certo risparmiato il Guatemala. I telefonini dilagano e, con essi, Facebook
e WhatsApp. Ormai, come in tutto il mondo, la gente usa queste applicazioni in
modo spropositato. Le usano anche i governi. È noto che i servizi segreti del
Paese hanno degli uffici dedicati esclusivamente alla creazione di fake news, di meme, di video e quant’altro possa essere usato per creare un’opinione
pubblica favorevole al governo e diffamare e svillaneggiare quotidianamente
ogni tipo di oppositore. La sezione dei “commenti” delle testate digitali è piena
di insulti contro chi osa scrivere un articolo critico, e le falsità che
circolano, soprattutto su WhatsApp, sono incalcolabili.
Paese
complesso e di difficile lettura, il Guatemala offre un panorama fra i più
contemporanei, nella sua apparente anacronia. Il vecchio si mescola al nuovo
con grande fluidità. Lo scontro sociale si accompagna allo scontro etnico e
religioso, e una sola parola può davvero definire la situazione attuale: l’imprevedibilità.
Su un’impalcatura di stampo coloniale (la vecchia oligarchia terriera che
sfrutta ancora gli indios e li tiene nella miseria), si innalza una politica
populista in linea con quella di altri Paesi teoricamente più sviluppati,
caratterizzata da un’applicazione letterale delle dottrine neoliberiste,
insieme alla diffusione di un’idea di religione politicamente decisiva, alle
ideologie sostituite dalla fede, alla rivoluzione digitale al servizio del
potere e a una svolta autoritaria che fa temere un ritorno al passato
travestito di novità e futuro. E tutto questo accade nel contesto di uno
scontro globale fra le tentazioni imperialiste degli Stati Uniti, la Russia e
la Cina, molto presenti nello sfruttamento delle ricchezze naturali del Paese. Forse
sarebbe il momento di recuperare alcuni concetti basilari della civiltà che
sono stati vanto della cultura occidentale: l’uguaglianza, la libertà, la
solidarietà e la sincera ricerca della verità.
Dante Liano, nato in Guatemala nel 1948, è ordinario di Lingua e letterature
ispanoamericane nella Facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove coordina anche la Scuola di
dottorato. Presidente dell’Associazione di studi iberoamericani, ha pubblicato numerosi
libri di studi letterari e più di un centinaio di articoli sulla sua
specialità. Critico letterario e autore di quattro libri di racconti e otto
romanzi, oltre a narrazioni di cultura maya insieme a Rigoberta Menchú, ha
vinto il Premio nazionale di letteratura “Miguel Ángel Asturias” e il Premio “Otto
René Castillo” di Città del Guatemala.