(Athos Turchi)
Lo stradello, largo una persona e lungo due ore, ci tiene tutti in fila indiana. È un filo nero che serpeggia per l’alta erba cresciuta dopo l’incendio della foresta, impossibile spostarsi a destra o a sinistra, dobbiamo tenere il nostro posto. Esso è asfaltato dalla cacca di cavallo, unico “mezzo” che passa di qui, ma… “No te preocupe –dice Ottavio – è drenata, non solleva schizzi”. E dopo 45 minuti incontriamo una di queste rare e particolari “asfaltatrici” con sopra un bambino, che per evitarci si ferma ai bordi del sentiero e lascia passare la processione. Una prima salita, con relativa discesa, una seconda salita… la fila si allunga, si sfilaccia, si sbriciola, alla terza salita dobbiamo aspettarci per non perderci. Il sole tropicale martella il capo e le spalle. Due grandi farfalle di un viola luminoso si rincorrono. Lo stridere di pappagalli che si alzano in volo al nostro passaggio rompe il silenzio meridiano. Ma dove stiamo andando, mi chiedo dopo quasi due ore di cammino?
Dietro una curva lo stradello all’improvviso si allarga e termina in un bel fiume ricco d’acqua. E ora? Dobbiamo guadarlo. Comincia il rito dello scioglimento dei lacci delle scarpe e del rigirare i calzoni più su che si può, del preparare il fardello dei cenci e delle scarpe e di quant’altro non deve bagnarsi. Si attraversa il fiume in un nugolo d’imprecazioni, urli doloranti di piedi nudi, gridi di soccorso, e parolacce di chi cade dentro l’acqua. Nell’altra riva scena contraria alla precendente, e si riparte. Esattamente due ore ed eccoci alla fine dello stradello, precisamente nel problema. Il problema si chiama «Nueva Armenia» poche capanne, molti bambini, molti animali, molti disperati. Oltre le alte e dritte colline che sovrastano il villaggio c’è il Belize. Che ci fanno queste persone qui? Cacciate da altri luoghi queste famiglie hanno pensato bene di venire qui a trovare un poco di terra per vivere. Ma sapevano che era una zona protetta, e che è la zona di confine tra gli stati di Guatemala e Belize. Due motivi per cui non possono starci. Sanno che saranno cacciati. Dove andranno? Nessuno sa dirglielo oltre che le promesse mai concretizzate. Il fiume vicino intanto è preso d’assalto da cercatori d’oro. Ottavio chiede a un giovane delle informazioni: l’oro si trova a circa 9 ore a piedi da qui, a monte del fiume, in territorio Belizegno.
Lo stradello, largo una persona e lungo due ore, ci tiene tutti in fila indiana. È un filo nero che serpeggia per l’alta erba cresciuta dopo l’incendio della foresta, impossibile spostarsi a destra o a sinistra, dobbiamo tenere il nostro posto. Esso è asfaltato dalla cacca di cavallo, unico “mezzo” che passa di qui, ma… “No te preocupe –dice Ottavio – è drenata, non solleva schizzi”. E dopo 45 minuti incontriamo una di queste rare e particolari “asfaltatrici” con sopra un bambino, che per evitarci si ferma ai bordi del sentiero e lascia passare la processione. Una prima salita, con relativa discesa, una seconda salita… la fila si allunga, si sfilaccia, si sbriciola, alla terza salita dobbiamo aspettarci per non perderci. Il sole tropicale martella il capo e le spalle. Due grandi farfalle di un viola luminoso si rincorrono. Lo stridere di pappagalli che si alzano in volo al nostro passaggio rompe il silenzio meridiano. Ma dove stiamo andando, mi chiedo dopo quasi due ore di cammino?
Dietro una curva lo stradello all’improvviso si allarga e termina in un bel fiume ricco d’acqua. E ora? Dobbiamo guadarlo. Comincia il rito dello scioglimento dei lacci delle scarpe e del rigirare i calzoni più su che si può, del preparare il fardello dei cenci e delle scarpe e di quant’altro non deve bagnarsi. Si attraversa il fiume in un nugolo d’imprecazioni, urli doloranti di piedi nudi, gridi di soccorso, e parolacce di chi cade dentro l’acqua. Nell’altra riva scena contraria alla precendente, e si riparte. Esattamente due ore ed eccoci alla fine dello stradello, precisamente nel problema. Il problema si chiama «Nueva Armenia» poche capanne, molti bambini, molti animali, molti disperati. Oltre le alte e dritte colline che sovrastano il villaggio c’è il Belize. Che ci fanno queste persone qui? Cacciate da altri luoghi queste famiglie hanno pensato bene di venire qui a trovare un poco di terra per vivere. Ma sapevano che era una zona protetta, e che è la zona di confine tra gli stati di Guatemala e Belize. Due motivi per cui non possono starci. Sanno che saranno cacciati. Dove andranno? Nessuno sa dirglielo oltre che le promesse mai concretizzate. Il fiume vicino intanto è preso d’assalto da cercatori d’oro. Ottavio chiede a un giovane delle informazioni: l’oro si trova a circa 9 ore a piedi da qui, a monte del fiume, in territorio Belizegno.
Alcuni giorni fa un conflitto a fuoco tra l’esercito del Belize e questi
campesinos improvvisatisi cercatori d’oro ha portato a un morto. C’è una novità: in territorio del Belize, dove si trova l’oro, è presente un Gringo, un americano, che rappresenta una società. Sembra che l’oro della zona sia già “prenotato”. Il ragazzo insomma dice che la situazione è complessa, perché la
corsa all’oro non prevede confini, e perciò il problema dovrà risolversi tra Belize, Guatemala e questa continua presenza americana che riappare in tutti e qualsivoglia problema di questo Paese.
Ottavio poi s’informa sullo stato delle persone di questo villaggio: nessuno dei bambini è andato a scuola, non possono avere strade, non possono coltivare, queste persone insomma non esistono o sarebbe meglio che non esistessero, perché ogni tanto fanno sentire la voce e il Sindaco di Dolores, intento ai suoi affari, viene distolto dai loro reclami: è intollerabile… che se ne vadano! E dove? Il sindaco, si sa, è lì per fare promesse, non per risolvere problemi, e di promesse lui gliele ha fatte tante: e dunque che cosa vogliono ancora?!
La messa è celebrata dentro la capanna di don Paulino, le amache ci fanno da baldacchino, il tavolo che fa da altare ha 4 gambe differenti adatte al terreno della cucina, e qui la differenza è rimediata da legni, tronchetti e pietre. Dio si fa presente in questa povertà come si fece presente nella capanna di Betlemme. Anche un pastore protestante è presente alla messa, pur di partecipare a una preghiera comunitaria con altri fratelli figli tutti dello stesso Dio. Oltre la povertà estrema dell’ambiente e delle cose, si sente una profonda povertà «umana» che si può riassumere in una parola: abbandono.
Ottavio poi s’informa sullo stato delle persone di questo villaggio: nessuno dei bambini è andato a scuola, non possono avere strade, non possono coltivare, queste persone insomma non esistono o sarebbe meglio che non esistessero, perché ogni tanto fanno sentire la voce e il Sindaco di Dolores, intento ai suoi affari, viene distolto dai loro reclami: è intollerabile… che se ne vadano! E dove? Il sindaco, si sa, è lì per fare promesse, non per risolvere problemi, e di promesse lui gliele ha fatte tante: e dunque che cosa vogliono ancora?!
La messa è celebrata dentro la capanna di don Paulino, le amache ci fanno da baldacchino, il tavolo che fa da altare ha 4 gambe differenti adatte al terreno della cucina, e qui la differenza è rimediata da legni, tronchetti e pietre. Dio si fa presente in questa povertà come si fece presente nella capanna di Betlemme. Anche un pastore protestante è presente alla messa, pur di partecipare a una preghiera comunitaria con altri fratelli figli tutti dello stesso Dio. Oltre la povertà estrema dell’ambiente e delle cose, si sente una profonda povertà «umana» che si può riassumere in una parola: abbandono.
Brillerà alla fine anche qui una stella? Basterebbe anche non tanto grande. Il fiume scende vivace, gorgheggiando tra due rive boscose, e ci vede rifare le stesse cose dell’andata. E anche il sentiero ci accoglie di nuovo sotto il
suo sole, sopra la sua cacca, lungo il serpeggiare per le alte colline del suo percorso.