Un ricordo
di ALDO ZANCHETTA
Il 24
gennaio 2011 moriva il vescovo Samuel Ruiz, el Tatic. A poco più di 5 anni di
distanza papa Francesco è andato a rendergli omaggio in quella che fu la sede
della sua diocesi, San Cristóbal de Las Casas, la antica Ciudad Real dove, dal
1544 al 1547, era stato vescovo Bartolomè de Las Casas,. Una riabilitazione
dovuta ad un uomo di fede che da vivo ha dovuto tanto lottare nella sua stessa
chiesa. Certamente el Tatic (padre) resterà nella storia dei rapporti fra la
chiesa di Roma e il mondo indigeno di Abya Yala, mondo al quale Francesco a San
Cristóbal ha chiesto perdono per la collaborazione prestata ai conquistadores.
PREMESSA
La presente
relazione non vuole affrontare delicati temi dottrinari se non nella misura
necessario a narrare l’opera ecclesiale di Don Samuel Ruiz, e piuttosto vuole
essere una testimonianza sull’operato tutto di un uomo, certamente eccezionale,
al quale sono stato legato da sincera amicizia e dai preziosi insegnamenti di
“sabiduria”, oltre che dalla sua presenza amicale a una dolorosa vicenda
familiare.
Samuel Ruiz
si trovò a essere protagonista di avvenimenti storici fra i quali spiccano la
creazione -nata sulla scia del concilio Vaticano Secondo (1962-1965)- di una
chiesa locale con una forte coratterizzazione india, nonchè la difficile
mediazione nel conflitto scoppiato nel gennaio 1994 in Chiapas fra governo
messicano e Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
La prima di
queste due esperienze portò questo mite vescovo d’acciaio a dover affrontare un
lungo e sofferto conflitto con la Chiesa di Roma, prima col suo nunzio
apostolico in Messico e poi direttamente con i vertici vaticani, cosa non
infrequente per i “profeti” chiamati ad aprire -o riaprire- altri orizzonti.
In questo
egli può essere annoverato fra i componenti di quella chiesa popolare
latinoamericana, certamente minoritaria storicamente ma mai silenziatasi, cui
sono appartenuti religiosi come Bartolomé de Las Casas, Mendes Arceo,
Helder Camara, Oscar Romero, Leonidas Proaño, che Ruiz definì “il padre di
tutti noi”, Pedro Casaldaliga e molti altri. Nessuno di essi, beninteso, è salito
né salirà mai agli onori degli altari, ciò che costituirebbe una stonatura, ma
essi sono santi nei ricordi del popolo. La testimonianza di Don Samuel
resta esemplare anche dal punto di vista civile, del cittadino cosciente dei
propri doveri sociali vissuti nella necessaria distinzione fra dominio
religiosa e dominio politico.
“EL CAMINANTE”
Cenni biografici
Don Samuel
Ruiz García venne definito da molti come “el caminante”, “il viandante”,
per l’instancabile assolvimento dei compiti che l’incarico gli richiedeva,
affrontati sempre con fede, speranza e grande “sabiduria”, condite spesso,
anche nei momenti più critici, con un humor sdrammatizzante.
“Samuel Ruiz
– El caminante” è anche il titolo di un libro del suo miglior biografo, Carlos
Fazio, il quale, pur non condividendone la fede, era un suo grande ammiratore
perché, come scrisse nel suo necrologio, <<Don Samuel ci insegnò il
cammino dell’accompagnamento degli indigeni del Chiapas e del popolo povero del
Messico.>>
Scrive Fazio
: <<Figlio di immigrati clandestini negli Stati Uniti venne ordinato
sacerdote a Roma, nel 1949. Dieci anni dopo, Giovanni XXIII lo nominò vescovo
di San Cristóbal. Aveva appena 35 anni. Era stato educato per essere un vescovo
tradizionale, di potere. Ma iniziando poco a poco a percorrere la diocesi,
quella realtà di miseria e di privazioni lo percosse. Erano tempi in cui si
praticava un indigenismo paternalista, nel quale l’indio era oggetto
dell’azione pastorale. Grazie al Concilio Vaticano II cominciò ad intuire che
quello non era il suo cammino di pastore. Fu il suo percorrere i sentieri reali
della selva Lacandona che lo incamminò alla propria conversione. Non potè
restare indifferente di fronte a tanta oppressione, miseria, fame,
discriminazione e morte.
Continua
Fazio: <<Nell’ultimo terzo del secolo XX il Chiapas era un baluardo di
possidenti terrieri, commercianti di legname e produttori di caffè, in una
realtà di ‘peones acasillados’ (sono coloro che nel lavoro nelle fincas
di coltivazione del caffé lavorano in condizioni semiservili) come ai tempi
della colonia. Per un certo tempo don Samuel fu un vescovo simile a un pesce:
passò con gli occhi aperti in mezzo all’oppressione senza vederla. Finchè
scoprì l’indio emarginato. […] In realtà, come raccontava spesso, chi lo
convertì furono gli indigeni. Da allora visse la conversione come un continuum,
convertendosi continuamente nel corso di 40 anni.
Non fu un
camino facile. Dovette lasciare indietro inerzie, onori, comodità. Nessuno opta
per gli indigeni senza convertirsi agli indigeni, questi che fra Bartolomé de
Las Casas definiva i Cristi maltrattati. Don Samuel fu un vescovo con le porte
aperte. Ma non fu mai un vescovo seduto. Al contrario, fu e continuerà a
essere, per coloro che lo conobbero, un pastore in cammino. Lo chiamavano El Caminante. Infatti gli indios
del Chiapas lo videro giungere nei loro villaggi, instancabile, sul suo cavallo
“Sette Leghe”, o a dorso di mulo, in jeep o più semplicemente a piedi.>>
Fin qui
Carlos Fazio. Nell’annuario vaticano risultano più di 4mila visite pastorali da
lui effettuate. La metafora del pesce che dorme a occhi aperti ma senza vedere,
è dello stesso Don Samuel, come suo è il racconto della sua prima predica nella
cattedrale di San Cristóbal, imperniata sul pericolo comunista –era l’anno del
trionfo castrista a Cuba- episodio che ricordava sorridendo.
E ancora è
suo il racconto di un “caffè troppo amaro”, bevuto durante una delle sue prime
visite pastorali, nel corso delle quali soleva dormire nelle case dei
benestanti locali. In tale occasione scoprì che i possidenti facevano pagare ai
loro peones le spese del suo soggiorno presso di loro. Da allora dormì
solo nelle misere capanne degli indios, spesso sulla nuda terra.
Una scelta
di campo radicale
Ruiz
ricordava spesso: <<La domanda che Dio ci farà alla fine della nostra
esistenza sarà: Da quale parte siamo stati? Chi abbiamo difeso? Quali abbiamo
scelto? Domande che nessuno, neppure i potenti, potranno eludere alla fine
della loro vita.>>
Ma la
conversione non fu solo di carattere etico, di scelta di campo. Essa
comportò anche un profondo cambiamento culturale. Un altro suo biografo, John
Womak jr., scrive: <<Mentre organizzava la nuova azione pastorale per
gli indigeni, il vescovo Ruiz a volte si domandava se in realtà era consapevole
di ciò che stava facendo. Soffrì un angoscioso dialogo nel corso di un incontro
di vescovi missionari, a Melgar, in Colombia.>>.
Il dialogo
cui Womack si riferisce fu quello con l’antropologo Dolmatoff, così descritto
dallo stesso Ruiz:
<<Mi
alzai e domandai all’antropologo: “Nelle culture indigene che lei conosce vi
sono cose secondarie e elementi primari. La religione è qualcosa di secondario
o di fondamentale?” Dolmatoff mi rispose: “In tutte le culture indigene che io
conosco, la religione è un elemento assolutamente agglutinante per tutti i
fattori culturali.” Mi sentii pieno di disperazione e con una quantità di
domande nella testa. Mi assalì un dubbio terribile: quindi cosa significava
evangelizzare? Era distruggere culture? Dovevo pertanto sedermi a contemplare
le culture e fare che rivivessero nel loro splendore pre-colombiano? Perché Dio
aveva permesso l’esistenza di tante culture? O ha fatto si che esistessero per
essere distrutte? Egli stesso si è fatto uomo abbracciando una cultura
determinata, arrivando perfino a parlare con il dialetto dei nazareni del paese
di Galilea.>>
Ancora più
intrigante fu la riflessione che, a seguito di questo dialogo, Samuel Ruiz
propose a una commissione di “sabios” indigeni della sua diocesi per conoscere
il loro giudizio sull’operato della Chiesa nelle loro comunità. Analfabeti e
parlanti solo la lingua tzeltal, dopo qualche tempo essi tornarono non con la
risposta attesa ma con tre domande che posero al vescovo:
- Il Dio del vescovo poteva salvare solo le anime o anche i corpi ?
- La parola di Dio è come una semente che può essere trovata dovunque, ed è un seme di salvezza. Non è possibile pensare che queste sementi si incontrino là dove viviamo, sulle montagne o nelle foreste?
- Voi avete vissuto con noi e condiviso le nostre vite. Noi vi consideriamo nostri fratelli e nostre sorelle. Avete voi il desiderio di essere nostri fratelli e sorelle per sempre?
Nominato nel
1968 responsabile della pastorale indigena dal CELAM, il Consiglio Episcopale
Latino Americano, nell’incarico egli mostrò notevoli doti di organizzatore.
Rientrato a San Cristóbal delegò a un collaboratore il suo incarico per quanto
riguardava la città e si immerse totalmente nella vita del mondo indigeno delle
cañadas, le impervie vallate della regione di Ocosingo. Fu qui che prese
forma la pastorale india.
Il potere
come servizio
L’evocazione
delle doti di organizzatore potrebbero far pensare a un uomo autoritario. Pablo
Romo, che fu uno dei suoi più stretti collaboratori, così ha scritto di lui:
<<Ho
accompagnato per 20 anni Don Samuel in molti suoi momenti. […]. Don
Samuel non lavorava solo, creava costantemente gruppi di lavoro, sempre
consultava e chiedeva opinioni, faceva sì che tutti fossimo parte delle
decisioni. Sempre generava consenso, tesseva decisioni collettive. Non so se
era un suo carisma o se lo aveva imparato dal mondo indigeno [dove] le
decisioni si prendono per consenso e si possono impiegare giorni interi prima
che giunga l’accordo. Per quanto evidenti potessero apparire le cose, Don
Samuel domandava, generava nell’altro la parola, ‘rendendolo importante nel
dirla […]. Di fatto don Samuel domandando creava persone, le ‘prendeva
in considerazione’, esse non erano oggetti delle sue decisioni. Ora lo vedo con
più chiarezza. Don Sam fu un grande tessitore, un grande costruttore di ponti e
di consensi, un costruttore di persone aventi la parola condivisa.>>
In realtà
l’insegnamento veniva dagli indios. In Chiapas, ha scritto don Sam, <<ho
imparato tante cose. A fare domande anziché distribuire risposte. Capire, prima
di spiegare. Piano piano la mia cultura è penetrata nella cultura Maya. I
principi della dottrina restano saldi, ma il modo di leggere il Vangelo ha
trovato intonazioni diverse. Siamo cresciuti assieme>>.
Così
modificò la struttura classica delle parrocchie, in una diocesi avente di
centinaia di comunità disperse in un territorio enorme, certo in numero assai
superiori a quello dei sacerdoti di cui la diocesi disponeva. Pablo Romo ad es.
doveva seguirne alcune decine.
Lo
accompagnai in alcune visite nel corso di una settimana di Pasqua. Ricordo in
particolare la comunità di San Marcos. Arrivammo a mattino assai inoltrato:
tutto era pronto per la celebrazione della messa. Pablo chiese con naturalezza
al catechista della comunità quali letture avessero scelto, come le avessero
preparate. Al termine della celebrazione un pasto nella radura con tutti gli
abitanti, cucinato sui fuochi in una atmosfera di allegria. Subito dopo via,
verso un'altra comunità.
La vita
della diocesi venne organizzata secondo modelli orizzontali di lavoro, come
racconta Pablo:
<<Formò
sette gruppi di lavoro a livello diocesano [...] che si convertirono
negli anni ’70 in un nuovo modello ecclesiologico, consentendo l’assunzione di
decisioni più orizzontalmente; [...] l’autorità era condivisa non solo
congiuntamente ma anche secondo situazioni di genere, poiché la maggior parte
degli agenti pastorali erano donne, sia religiose che laiche.>>
Così nacque
e si sviluppò il III sinodo diocesano convocato nel 1995 e conclusosi nel 1999,
il cui percorso Claudia Fanti ha così sintetizzato: <<un processo
di costruzione di una Chiesa autoctona, liberatrice, evangelizzatrice, animata
da uno spirito di servizio, in comunione e sotto la guida dello Spirito”. Sono,
questi, i sei tratti distintivi della Chiesa chapaneca fissati dal Terzo Sinodo
Diocesano, sullo sfondo delle grandi opzioni pastorali della diocesi: la
creazione, nello spirito della collegialità conciliare, di strutture di
comunione più vicine allo spirito evangelico; l’accompagnamento pastorale
integrale al popolo di Dio nella concretezza della sua realtà terrena; la
ricerca del dialogo e della riconciliazione come unico cammino per risolvere i
conflitti. E, naturalmente, l’opzione per i poveri…>>
Un modello
di chiesa
Nella
lettera indirizzata nel 2000 da Ruiz al Card. Medina che stava concludendo il
giudizio vaticano sulla sua nomina di diaconi permanenti sposati, scrive:
<<Quando
arrivammo, quarant'anni fa, nella diocesi del Chiapas, che comprendeva la
diocesi di Tuxtla Gutierrez e l'attuale di San Cristóbal, avevamo tredici
sacerdoti in una situazione di estremo isolamento, duro lavoro, mancanza di
comunicazione, insicurezza e ristrettezze economiche. C'era una dimensione di
povertà accettata e vissuta da parte dei sacerdoti, che, grazie a Dio, continua
anche oggi. Queste condizioni sono state benedette da Dio attraverso una
quantità di catechisti e altri ministeri laicali.>>[4]
Quando,
giunto ai 75 anni di età, lasciò la diocesi, (le sue dimissioni furono
prontamente accolte), vi erano 84 sacerdoti, 800 diaconi in gran parte sposati
e 8.000 catechisti per 50 parrocchie e con 1 milione e mezzo di abitanti, Ma il
problema per Ruiz non era solo quantitativo bensì di modello di chiesa da
realizzare. Con umiltà aveva chiarito a se stesso il senso profondo del
sacerdozio e del modo di esercitarlo, ancorandolo alla tradizione biblica.
Nella stessa lettera scrive ancora:
<<Se
vogliamo parlare con precisione e rigore, dopo 500 anni non ci sono sacerdoti
indigeni; ci sono indigeni ordinati come sacerdoti, ma che nel processo della
loro formazione hanno subito l'imposizione di una "cultura estranea"
con conseguente crisi di identità>>
Nel
commiato, traccia così il bilancio del proprio lavoro:
<<Al
termine dei miei settantacinque anni di vita e dei quaranta di ministero
episcopale in questa diocesi di San Cristóbal de las Casas, mi resta la
profonda soddisfazione che questo lavoro non sia stato un lavoro isolato, ma
svolto nello spirito del Concilio, in conformità con ciò che si fa in tutto il
Continente. Così, la riflessione che la teologia degli indigeni ha condotto,
dai versanti delle differenti confessioni, sulla fede precolombiana o sulla
fede cristiana a partire dalle loro culture, ci fa capire l'ansia e
l'opportunità presenti di dare una risposta a questa situazione che riguarda
tutto il continente. Abbiamo parlato, brevemente, con il Cardinale Ratzinger e
intravisto una luce nell'incarnazione della Chiesa o del Vangelo nelle culture
indigene: che il nostro modello di sacerdozio ritorni al modello di sacerdozio
vissuto da Gesù Cristo, sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec. Vi è
l'impressione che il sacerdozio cattolico non abbia seguito la linea del
sacerdozio suggerita da Melchisedec, anteriore al sacerdozio levitico. Alle
origini il sacerdozio cristiano non si esercitò nel tempio di Gerusalemme.
L'Eucarestia si celebrò, come ricorda Paolo, in casa dei "discepoli del
nuovo cammino". Crediamo che l'incarnazione della Chiesa nelle culture
indigene ci consoliderà nella sequela del sacerdozio vissuto da Gesù Cristo:
secondo l'ordine di Melchisedec.>>
La pastorale
india
Il tema
della pastorale india è stato affrontato da Don Samuel in una lunga intervista
concessa a una studiosa delle religioni mesoamericane, Sylvia Marcos.
Il termine
‘teologia india’, dice Ruiz, <<non è del tutto soddisfacente perché
non parliamo esattamente di teologia nel senso occidentale. Nel colloquio di
Cochabamba (1997) gli indigeni hanno preferito parlare di “sabiduria” piuttosto
che di teologia india. Però questa sabiduria india per un certo tempo venne
chiamata teologia perché è una riflessione sulla fede, sia sulla fede ereditata
dall’epoca pre-colombiana come su quella cristiana. Da un punto di vista
culturale essa ha alcune caratteristiche che non appartengono alla teologia
occidentale.>>
E prosegue:
<<La teologia india è una teologia comunitaria. Non vi sono teologi
rilevanti nell’ambito della teologia o, meglio, della sabiduria, perché questa
è una riflessione dell’intera comunità. Certamente in questi tempi di dialogo
necessario fra le culture indigene (ancorate a una tradizione precolombiana) e
la religione cristiana, è necessaria una sistematizzazione. La si sta tentando,
ma non deve essere la spina dorsale della teologia india.>>
<<La
sabiduria india si è mossa finora in termini transecumenici o interreligiosi.
Da un lato è una riflessione sulla religione precolombiana e dall’altro aspira
anche ad essere una teologia o riflessione cristiana che consiste nel guardare
il messaggio cristiano dal versante della propria cultura. Credo che non si sia
tenuta in sufficiente considerazione il fatto che vi è una presenza salvifica
di Dio in tutte le religioni e quindi anche in quelle precolombiane.>>
Dopo un
approfondimento di queste affermazioni fatto partendo da molteplici esperienze
e testimonianze, svolte sia nel campo cattolico che protestante e della
“sabiduria” india -che omettiamo per vincoli di tempo- Ruiz afferma: <<tutto
questo è ciò che viene chiamato il ‘movimento’ della teologia india. Pertanto
esso è molteplice, ed ha una gamma assai ampia. Non è solamente teologia
cattolica bensì cristiana, e anche interreligiosa.>>
Il movimento
oggi <<inizia un dialogo che non ha mai avuto luogo nei 500 anni dalla
prima evangelizzazione. Essa per comunicare l’Evangelo impose un’altra cultura
sopra quella indigena. Non vi fu reciprocità di ascolto. Questo dialogo non ci
fu perchè si scontrava con un presupposto teologico che di fatto negava ciò che
era culturalmente differente [...] Questo grave errore comincia a essere
corretto solo oggi, dopo il Concilio Vaticano II. [...]Dio si rivela in
modo tale che il cammino intrapreso da ogni popolo ha un punto di incontro
nella convocazione che Dio dirige a tutti i popoli per costruire un popolo di
popoli, che è il nuovo popolo di Dio. Questo popolo di Dio è costituito dalla
traiettoria salvifica e dalla rivelazione che Dio ha fatto alle diverse
culture. E’ arricchito da tutte le esperienze dei popoli particolari.
L’Evangelo e l’esperienza cristiana portano a maturazione della rivelazione
antecedente presente in queste culture. Ma non viene annunciato un Dio
differente. Lo stesso Dio conosciuto in modo diverso, è quello che si annuncia
posteriormente con maggiore chiarezza.>>
L’intervista
è molto lunga e non ci è possibile qui soffermarcisi oltre. Ci limitiamo a
rilevare la differenza fra “teologia india” e “teologia della liberazione”,
della quale essa è spesso considerata, erroneamente, una branca. Errore nel
quale cadde lo stesso Giovanni Paolo II che, in un intervista in occasione di
un suo viaggio in Messico, le assimilò affermando che entrambe erano una
aberrazione del marxismo. Nella teologia della liberazione, precisa Ruiz, ciò
che <<per noi è primaria è la liberazione, più che la teologia>>.
Teologia india e teologia della liberazione <<sono due momenti storici
diversi [...]. L’importante è sapere che vi sono teologi della liberazione che
oggi riflettono a partire dalla teologia india, ciò che non vuol dire che esse
siano la stessa cosa. [...] Se la teologia non è liberazione, essa non è
teologia.>>.
L’impegno
civile
La notte del
primo gennaio del 1994 migliaia di indigeni appartenenti all’Esercito Zapatista
di Liberazione Nazionale, col volto coperto da passamontagna, occuparono 6 capoluoghi
municipali del Chiapas, fra cui San Cristóbal. “Abbiamo il volto coperto
affinché ci vediate”, dissero, “dato che in tutti questi anni ci avete
invisibilizzati”. Non ci è possibile soffermarci su questo evento la cui
conoscenza diamo per scontata. La reazione governativa fu violenta e scomposta,
con bombardamenti di villaggi e scontri armati in vari luoghi. Una grande
protesta popolare, in Messico e nel mondo, impose però un rapido armistizio e
l’inizio di trattative di pace fra insorti e governo. Occorreva però trovare il
mediatore e il luogo.
Indicato
dagli insorti e da molte organizzazioni della società civile, Samuel Ruiz fu
nominato presidente della CONAI, la Commissione Nazionale di Intermediazione, e
la chiesa cattedrale divenne il luogo dei difficili colloqui, nella cui
complessa vicenda non possiamo entrare. Ruiz ricorda: <<feci sapere
pubblicamente che questa funzione di intermediazione che mi si richiedeva non
prescindeva in alcun modo dalla mia opzione evangelica per i poveri e gli indigeni.
Nonostante ciò entrambe le parti accettarono la mia mediazione così
caratterizzata.>>
L’opera del
mediatore, “imparziale ma non neutrale”. fu lunga e difficile. Il
dialogo fra insorti e governo vide l’elaborazione dei cosidetti “accordi di San
Andrés” su “cultura e diritti indigeni”, mai ratificati dal governo ma che
restano un riferimento fondamentale per il mondo indigeno messicano e non. Di
fronte alla chiara volontà del governo di non giungere a una soluzione, nel
giugno del ’98 Ruiz con un duro comunicato denunciò l’impossibilità di
proseguire nell’incarico a causa della mancanza di volontà di una delle parti.
Ruiz era
stato accusato di avere fomentato e addirittura diretto la rivolta (il
“comandante Sam” si diceva). Essa certo aveva trovato terreno fertile nel
grande lavoro sociale realizzato dalla Diocesi nelle cañadas di
Ocosingo, dove l’Esercito Zapatista, in gestazione clandestina fin dal 1983,
aveva reclutato molti suoi quadri fra gli stessi catechisti della chiesa
locale.
Gli avversari
di Ruiz lo sfidavano con due domande cruciali: aveva saputo dell’insurrezione
che già prima del 1994 si stava preparando? E se lo aveva saputo, perché aveva
taciuto?
Ruiz
affronta con franchezza queste domande nell’ultimo capitolo del suo libro Mi
trabajo pastoral en la Diócesis de San Cristóbal de Las Casas. Principios
Teológicos (1999). Dopo aver ricordato che la Diocesi è la stessa che fu
retta da fray Bartolomé de Las Casas e richiamato le massime evangeliche e i
documenti pontifici a cui la sua opera si è ispirata, cita fra l’altro la Pacem
in terris di Giovanni XXIII: <<I vescovi…insegnino sopra la
povertà e l’abbondanza di ricchezze: espongano, infine, i modi come debbano
risolversi i gravissimi problemi circa il possesso, la crescita e la giusta
distribuzione dei beni materiali, sopra la guerra e la pace e la fraterna
convivenza di tutti i popoli.>>
Ricorda in
particolare il documento conciliare Gaudium et spes: <<Ci ha
preoccupato in modo particolare che “si deve prestare grande attenzione
all’educazione civica e politica […] Abbiamo insistito costantemente sul fatto
che per il cristiano è fondamentale e necessario, per l’esercizio della
politica partendo dalla fede, il tenere assai fermo il principio che “la
comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome, ciascuna sul
proprio terreno”.>>
Gonzalo
Ituarte, che fu il braccio destro di don Samuel come vicario di Giustizia e
Pace e che seguì in particolare il lavoro pastorale nelle cañadas di
Ocosingo, in una intervista testimonia questa impostazione: <<abbiamo
sentito che è questo il nostro ruolo (di Chiesa), essere piccoli perché il
popolo possa essere grande, mai sostituirlo nelle sue scelte e nei processi di
cambiamento. […] E’ su questa organizzazione politica, che stava sopra
quella sociale e religiosa, -e che Gonzalo attribuisce alla autonoma
assunzione di responsabilità da parte dei catechisti indigeni - che sorse lo
zapatismo. Fu un processo che trovò un terreno fertile e si sviluppò.>>
Infine
risponde alle due domande senza reticenza:
<<Chi
trascorre gran parte del proprio tempo in mezzo al popolo che filialmente gli
apre il proprio cuore, è naturale che sappia che cosa questo popolo ha intenzione
di fare. Sarebbe stato immensamente grave dal punto di vista pastorale e della
responsabilità episcopale che il vescovo non sapesse alcunché, perché avrebbe
abbandonato il suo gregge. Ho sentito, con tutta l’etica evangelica necessaria
in un caso come questo, che il vescovo è un pastore e non un delatore; e che,
in ogni caso, durante più di 16 anni noi vescovi (del Chiapas nda) avevamo
segnalato […] anche con conversazioni con le più alte autorità che nella
regione, […] “si dovevano mettere in atto soluzioni audaci,
profondamente innovatrici…intraprendere senza ulteriori attese riforme urgenti…
>>
L’opera
della disciolta CONAI venne da Ruiz ripresa con la fondazione di Sera*Paz, un
organismo civile di servizio alla pace e alla trasformazione dei conflitti
sociali, tuttora operante in diversi conflitti sociali in Messico e fuori, e
dove si conserva l’archivio storico della CONAI stessa.
L’opera di
Ruiz prosegue in Chiapas attraverso il Centro Diritti Umani fray Bartolomè de
Las Casas, o Frayba, oggi presieduta dal vescovo Raul Vera, che ha assunto
l’eredità spirituale di Tatik, il nome con cui gli indigeni chiamavano
familiarmente Don Samuel.
Conclusione
Concludiamo
questo, che è solo un breve flash sull’opera multiforme di Don Samuel,
ricorrendo di nuovo a Carlos Fazio, osservatore esterno, e a Pablo Romo, suo
intimo collaboratore.
Il primo,
nel necrologio sul quotidiano La Jornada, ha scritto: <<Profeta
seduttore, seppe essere un teologo che lasciò i libri per la storia –la storia
reale, concreta- tenendo ben fermi i piedi sulla terra. Uomo di frontiera e di
accompagnamento, si trasformò in leader senza esserselo proposto, con un
patrimonio morale enorme, perché sempre si schierò sulla frontiera fra la vita
e la morte.
Oltre a
questo, il fatto di essersi impegnato a comprendere le lingue tzeltal, tzotzil
e un po’ anche il chol e il tojolabal, le quattro lingue indigene predominanti
nella sua diocesi, mostra quale fu il suo atteggiamento pastorale: non
dall’alto e dal fuori, ma dal dentro e alla pari.>>
Il secondo,
nel testo già citato, ha scritto: <<Poche volte Don Samuel faceva parte
del gruppo di coordinamento delle Assemblee, che erano quasi sempre condotte da
rappresentanti dei 7 gruppi che preparavano l’agenda e la dinamica. Don Samuel
si sedeva con umiltà incredibile fra le seggiole degli altri e delle altre per
ascoltare e seguire le dinamiche. Perché scrivo questo? Perché penso che coloro
che intendono cambiare il mondo debbano sedersi dietro, come Don Samuel, e
ascoltare, più che essere protagonisti […], ascoltare per poi costruire assieme.>> Un insegnamento prezioso,
tanto più oggi.
Consentitemi
un’ultima citazione.
Di fronte
allo sbiadito telegramma formale di condoglianze inviato dalla Segreteria di
Stato a nome di Benedetto XVI, assume ben altro spessore il cordoglio che
espresse l’Esercito Zapatista dove fra l’altro si legge:
<<Al
di sopra di tutti gli attacchi e cospirazioni ecclesiali, Don Samuel Ruiz
García e le/i cristiane e cristiani come lui, hanno avuto, hanno ed avranno un
posto speciale nel cuore scuro delle comunità indigene zapatiste. Ora che è di
moda condannare tutta la Chiesa Cattolica per i crimini, gli eccessi, le
commistioni ed omissioni di alcuni dei suoi prelati…Ora che il settore che si
autodefinisce “progressista” si sollazza e si fa scherno della Chiesa Cattolica
tutta…Ora che si incoraggia a vedere in ogni sacerdote un pederasta potenziale
o attivo…Ora sarebbe bene tornare a guardare in basso e trovare lì chi, come
Don Samuel, ha sfidato e sfida il Potere.>>
Don Samuel
stimolava i suoi interlocutori a guardare al di là dei singoli fatti per
cogliere i processi in corso e scrutare i segni del tempo. In questo è stato un
grande maestro di educazione politica per tutti coloro che, credenti o non
credenti, sono impegnati per la liberazione dell’essere umano, impegno cui
dedicò la vita.